Il nuovo film di Michele Riondino racconta senza filtri e senza eccessi il dramma di un capitalismo senza freni e dei “fessi” che si credono furbi
Faccio una doverosa premessa: parlare di Ilva mi mette a disagio. Figuriamoci scriverne.
Forse per un fatto generazionale.
Quando il caso Ilva esplose in tutta la sua violenza, nel 2012, frequentavo le superiori, e di quegli anni ricordo con immenso fastidio due cose: da un lato, il dover costantemente spiegare a chi non era di Taranto che sì, il problema ambientale esisteva ma che no, non eravamo una specie di Chernobyl; dall’altro, il dover litigare con chi invece era di Taranto e, dopo anni di silenzio, si crogiolava nell’autocommiserazione e in una rabbia senza sbocco che si accontentava di annunciare la morte della città senza caricarsi della fatica di proclamarne la possibile risurrezione.
Forse è per questa specie di rigetto che ho aspettato così tanto per andare a vedere “Palazzina LAF”. L’opera prima di Michele Riondino non parla di Ilva in senso ambientale, eppure non riuscivo a vincere quella specie di nausea. Dopo averlo visto, però, sono contento, perché “Palazzina LAF” non è solo e semplicemente un film sull’Ilva.
Uno spaccato di società
Si potrebbe quasi dire, per assurdo, che il vero protagonista del film non sia lo stabilimento siderurgico. Il tema dell’inquinamento, ad esempio, è solo accennato, di sfondo, mai negato ma neppure sbandierato. Ma anche lo stesso caso di mobbing che dà il titolo alla vicenda, quello dei 79 impiegati “confinati” a non fare nulla nella palazzina LAF (Laminatoio A Freddo), appare quasi un pretesto per raccontare un’altra storia.
Sotto lo sguardo del regista, infatti, al centro della sua attenzione, per assurdo che possa sembrare non ci sono le vittime del mobbing. Non sono loro i protagonisti, ma tutto ciò che ruota loro attorno. Un ecosistema fatto di capi avidi e senza scrupoli, ripuliti ma che non riescono a nascondere fino in fondo le proprie origini “popolari”; di guardie giurate che sembrano più degli aguzzini, che quasi in una sorta di curioso esperimento sociale si divertono ad infierire senza motivo su chi è già in gabbia, privato della propria reale dignità di lavoratore. Ma soprattutto, assurge al ruolo di vero protagonista una classe sociale difficilmente definibile, che qui chiameremo la classe degli “accontentati”. Persone semplici, convinte che se il mondo è sempre andato in un modo andrà così per sempre, che non serve farsi troppe domande e se sei morto sul lavoro, beh, probabilmente te lo sei meritato. Persone a cui, per sentirsi realizzati, bastano una promozione a caposquadra e una Panda aziendale da poter vantare come se fosse la conquista definitiva («Manco il bollo devo pagare, solo la benzina ci metto praticamente»). Briciole cadute dalla tavola del padrone, di cui il bravo cagnolino non solo si accontenta, ma da cui si sente straordinariamente gratificato, al punto da non riuscire per niente ad empatizzare con il dramma dei colleghi isolati dalla fabbrica e ridotti sull’orlo della follia. «Naa, naa, le fadiatur», intonano sarcastici i lavoratori dello stabilimento quando il pulmino interno fa la fermata alla palazzina LAF. «Era buen e me mannavan pure a me addà».
Un messaggio che va oltre Taranto
È quasi un peccato che forse solo noi tarantini possiamo renderci conto fino in fondo di quanto siano realistici i tipi sociali raccontati da Riondino. Già, perché la loro rappresentazione è così cruda da poter risultare quasi caricaturale, a cominciare dal dialetto, che non è quello “ripulito” da commedia in vernacolo ma quello sguaiato da fermata del pullman. Eppure, a saperlo leggere bene, nascosto sotto quella coltre pesante di tarantinità verace c’è un tipo sociale che, ne siamo certi, esiste in tutta Italia e forse in tutto il mondo.
Il vero dramma di Taranto
Forse, alla fine, il vero messaggio nascosto fra le pieghe di questo film è questo: il dramma sociale e mai abbastanza raccontato di Taranto. Il proliferare, all’ombra della fabbrica, di un’intera classe di questi “accontentati”. Il moltiplicarsi all’infinito di un blocco sociale poco o per nulla incline a volersi migliorare perché tanto la fabbrica dà tutto quanto serve per vivere, richiedendo in cambio solo fedeltà.
Una cappa pesante, più pesante dell’acciaio e forse anche dei fumi, da cui Taranto sta solo ora cercando faticosamente di uscire. E allora, volendo chiudere con una nota di speranza, è singolare (e probabilmente non casuale) che proprio questo film, in sala, sia stato preceduto dallo spot che invoglia i giovani universitari a studiare in riva ai due mari. Che sia il seme per una nuova Taranto, che finalmente ha smesso di accontentarsi?