Riflessioni sulla democrazia tarantina dopo la Settimana Sociale dei Cattolici in Italia
Che cosa può suggerire a noi tarantini la Settimana Sociale dei Cattolici in Italia che si è appena chiusa a Trieste?
Mi risuona in testa questa domanda mentre sul volo di ritorno inizio a rileggere gli appunti presi nei giorni appena trascorsi nella città di Svevo e Saba.
Ah, a proposito. Per chi non lo sapesse, la Settimana Sociale dei Cattolici in Italia raduna delegati da tutte le diocesi d’Italia per riflette su un tema di attualità sociale, economica e politica. In cinquanta edizioni, vissute con varie interruzioni a partire dal 1907, i temi discussi sono stati tantissimi e tante le proposte che ne sono scaturite. Per me è la seconda, dopo quella di tre anni fa che si era tenuta proprio a Taranto. In riva allo Ionio si era parlato di ambiente e fra le proposte scaturite la più celebre è rimasta quella sulle comunità energetiche. Questa volta il tema è stato decisamente diverso: la partecipazione democratica.
Roba da nulla.
Non basta votare per essere una democrazia
Sfogliando gli appunti le prime righe che mi capitano davanti sono quelle del discorso di apertura tenuto dal Presidente della Repubblica. Un discorso insolitamente lungo, ricco di citazioni. Mi colpisce un passaggio in particolare, quello sulla “democrazia sostanziale” teorizzata da Dossetti, e cioè il «vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale». Insomma, non bastano le elezioni per dire di essere in una democrazia compiuta, se poi le leve del potere economico sono saldamente nelle mani di pochi. Ricordo che il tema è poi stato ripreso con ancora più veemenza qualche giorno dopo dal prof. Filippo Pizzolato: «La partecipazione entro la sfera economica è l’ambito maggiormente disatteso del progetto costituzionale, rimasto pressoché neutralizzato, come dimostra la sorte, tristemente comune, di inattuazione dell’art. 46 Cost., relativo alla partecipazione dei lavoratori alla vita e alla gestione delle aziende, non solo in termini di informazione e di consultazione». Come non pensare all’infinita vertenza Ilva e al ruolo dei lavoratori nella sua definizione?
Ritrovo, poi, le considerazioni della prof.ssa Elena Granata sulla privatizzazione degli spazi di socialità all’interno delle nostre città e sulla necessità di ripensare un’urbanistica fatta di spazi pubblici accessibili gratuitamente e torna in mente la questione dell’impiantistica sportiva (che fine hanno fatto i campi di via Cugini?), degli spazi culturali (perché il MuDIT è chiuso?). Eppure nessuno di questi spunti esaurisce in sé quello che Trieste potrebbe insegnarci.
Cos’ha da insegnarci Trieste
Mi viene da dire, allora, che forse quello che Trieste ha davvero da insegnarci non è un contenuto, ma un metodo, che definirei “del setaccio”.
A mettere persone in cerchio per parlarsi, più o meno, siamo abituati tutti. Il problema è che spesso questi momenti di discussione sono inconcludenti. Per evitare questo, a Trieste si è deciso di adottare un metodo complesso, in cui tutti i partecipanti ai gruppi di lavoro erano chiamati a mettere per iscritto le proprie riflessioni e le proprie proposte. Ma, soprattutto, a lavorare sulle proposte messe per iscritto dagli altri. Metodo anti-narcisistico per eccellenza, perché a quel punto poco contava che il proponente fosse un politico, il presidente di un’associazione, un docente universitario o un vescovo: l’unica cosa che importava era il riscontro che le proposte ottenevano nell’assemblea ristretta del gruppo.
E allora come non pensare alla miriade di associazioni, iniziative, circoli culturali che hanno finalmente scardinato il luogo comune secondo cui ai tarantini non importa nulla della propria città? Perché non metterli insieme in un gruppo di lavoro organizzato così, in cui condividere e custodire le proprie proposte e i propri sogni?
E chi potrebbe favorire e accompagnare questo processo se non proprio l’amministrazione comunale? Che potrebbe avere così occasione, finalmente, di creare un vero laboratorio di partecipazione in cui convogliare le tante energie positive che la società civile produce ma che spesso si disperdono in tante piccole patrie. Un’utopia? Forse, ma a Trieste l’abbiamo vissuta… E posso assicurarvi che non si torna indietro uguali.